di Marcello Carlino

Non v’è dubbio che sia stato l’esemplare di Ficus macrophylla, che fa spettacolo di fusto, di rami e chiome in Palermo, ad aver mosso le idee di pittura in questo ciclo di opere di Olga De Gasperis. Né v’è dubbio che la maestosa, stupefacente monumentalità di quella pianta, tra le più grandi in Europa, sia tale da attrarre e da rilanciare, da suggerire per metafora, infine, un potenziale simbolico che arte e letteratura hanno caro eleggere a base d’espressione.
Al di là del miracolo palermitano della flora mediterranea, che è qui l’occasione d’origine, queste immagini dipinte mi hanno ricordato, in più, e più profondamente, l’albero della vita: non solo e non tanto l’archetipo, il mito che dalle antiche religioni trapassa in una iconografia di tradizione, quanto l’albero della vita come lo vediamo cresciuto e rappresentato in tre luoghi di specie diversa, tutti particolarmente significativi della più ricca creatività occidentale. Dico dell’arazzo di William Morris, The tree of life, che rende testimonianza dell’utopia umanitaria ed ambientale sostenuta da colui che, compagno dei preraffaelliti, fu poliartista e politico e sognò una funzione sociale dell’arte in un mondo in cui la bellezza fosse dimensione partecipata del vissuto quotidiano, regola di un’esistenza collettiva segnata dalla pace e dalla tolleranza di cui l’armonia compiuta dell’albero stilizzava l’emblema. Dico del sorbo e del leccio nei romanzi di Volponi, sotto il cui ombrello e al cui riparo si svolge e si manifesta e si comprende la storia dell’uomo, una totalità complessa costituita di affinità, di identità, di differenze. Dico di The tree of life di Terrence Malick, film nelle cui sequenze iniziali il regista statunitense, accuratissimo costruttore di piani visivi, lega alla simbologia dell’albero un percorso lungo un tempo che non ha calendario, o umana misura, e che sulle tracce di una memoria biologica rivà alle primissime forme viventi, all’origine dell’essere.
Ebbene, l’innesto l’una sull’altra di infiorescenze di senso della forza e della natura di quelle appena osservate definisce e pone in ispicco i significati plurimi di Dendriti, una serie di quadri, come capitoli di un libro solo, che fanno un’opera unica, di coerenza assoluta.
I componenti delle mescole per le rese cromatiche sono già un avviso: talora polimateriche, le immagini più spesso sono ottenute da un combinato di oli e di asfalti, che sanno di organici chimismi di provenienza dal sottosuolo, là dove mettono stanza e affondano le radici. E i colori, che hanno una porosità da non-finito, così assomigliando ad una materia “aperta” in movimento, sono riportati all’essenziale: domina un marrone appena opacizzato e posto ai confini di un grigio che talora s’imbianca e s’inargenta, mentre cresce e s’inarca ad intrecciarsi il rosso. Sono colori primigeni; sono colori che sembrano preesistere all’occhio umano che li coglie alla lente della luce; sono colori della terra e del fuoco (del combusto e della cenere che risemina la natura), che prendono a specificarsi nelle forme della vita.
D’altra parte il tema delle radici si ripete qui in leitmotiv e si fa spartito dell’esistenza che s’origina, che s’incorpora. La pittura di Olga De Gasperis lo intona, lo modula nelle sue possibili variazioni e fughe; lo esplora minuziosamente centimetro per centimetro, e dettaglio dopo dettaglio, come un dermatologo la pelle, che sulle tele o sui supporti, nelle epifanie di Dendriti è il corrugato di una corteccia arborea.
Canali, nodi, fessure, lignei calanchi sono visti da vicino, in un piano sequenza che non si interrompe. Al punto che ciò che è radice appare congruente con ciò che della radice è prosecuzione nel tronco. Il divenire fusto delle radici, nel monocromo di un legno appena cangiante, viene ora riassunto, filmato come al ralenti; e altri tronchi sono generati d’intorno dal viluppo dei rami, a costituire un tutto in cui radici e fusto e rami sono in sostanza lo stesso, rivelazione di un’unica energia vitale che concilia le differenze.
In questo proiettarsi e prodursi unificante è la vita che trionfa. La pittura di Olga De Gasperis ha un prospetto plastico, pervenutogli da una ritmica alternanza di pieni e di vuoti, che prestissimo incide e dischiude la superficie dell’albero e la fa disponibile a incapsulare e a concepire altre esistenze e altre realtà, a rappresentare altre potenze in procinto di farsi atto. Si guardi per esempio alle fenditure, agli spacchi, alle divaricazioni che paiono affacciarsi su spazi di incubazione, dove può germogliare un non so che di inatteso e di nuovo; si registri la prossimità figurale degli scuri da nido, slargati sulla corteccia, alle cavità uterine; si pensi al femminile che l’albero contiene e declina nell’abbraccio musicale dei parallelismi, degli accostamenti graduati in adagio, delle focalizzazioni armoniche conseguenti: mentre dirama un paesaggio che sembra calarsi nelle viscere del tempo, quando i protouomini custodivano e tramandavano la vita nei ripari cavernosi delle pietre, l’ispessirsi di fibre in aggetto, quasi pliche e labbra, filamenti e striature muscolari, anima lentamente ma inesorabilmente una metamorfosi. L’albero si fa corpo, si fa carne. L’albero si fa della sostanza dell’essere umano.
Di mezzo c’è l’argenteo, il bianco vagamente aurato (e intanto schiacciato in un bassorilievo, come a spremere il succo dalla materia) di una mutazione di stato, di un passaggio. Ed ecco il rosso.
Il rosso riprende, si leva, s’annoda: fuoriesce canalizzato, s’incammina in condotti, s’infila in fasce tubolari e le colora. Ora il rosso è quel che è stato il marrone opaco: scava alvei, buca calanchi, compone un paesaggio plastico di pieni e di vuoti. L’albero si è trasformato, è l’uomo visto dall’interno, nella sua interiorità ideale: la linfa abita quello, la linfa e il sangue abitano questo: una ugualmente intensa energia vitale.
Dendriti è la storia dell’evoluzione delle forme dell’essere, un’avventura più stupefacente di qualunque sua possibile rappresentazione. Dendriti è un inno alla vita, al suo mistero, alla forza insopprimibile che la sospinge. Dendriti è un “libro” di immagini, un’opera d’arte ecologica, se dall’albero all’uomo la natura vi è protagonista e la sua parola è ascoltata, portata sulla tela. Dendriti è un appello al pensiero, se il titolo, allusivo ad un movimento diramato e come rizomatico, richiama l’anatomia del cervello e se la sua iconografia di base restituisce un possibile analogo dei circuiti neuronali, il cui lavoro di conoscenza, come la neuroscienza ci insegna, procede tra il concreto e l’astratto: e tra il concreto e l’astratto si svolge questa pittura di Olga De Gasperis, che parte dalla figura di un albero e la scruta pelle a pelle e la trascende. Dendriti è la forma di un racconto, se il palinsesto di un racconto, volendo ridurlo alle sue funzioni strutturali, è uno slanciarsi di tronchi e un protendersi di rami, in un viaggio dove passato e futuro si rannodano nel presente, e il presente è il tempo del pensiero che progetta, che irraggia linfa e sangue, che pulsa e diffonde ciò che potremmo definire linfe d’anima.
Il racconto di Dendriti, infine, è circolare. Perché parte dalle radici, di cellula in cellula passa per l’albero, arriva ad un organismo biologico che “presente” l’uomo; e poi ricomincia. Il racconto ricomincia. Come ricomincia, e deve ricominciare, la vita.
Il racconto di Dendriti, perché circolare, non smette. E non smette così il suo messaggio ecologico, utopico. Apprezzare la circolarità insmettibile della vita significa rivendicare la necessità che nessun atto la comprometta, ne spezzi l’anello, la renda incompatibile con l’esistenza dell’uomo sulla terra. E questa è la radice della bellezza.